Il film, diretto da Anthony Mann, segna l’ultima collaborazione di quest’ultimo con il protagonista James Stewart. Prima de “L’uomo di Laramie”, infatti, i due avevano collaborato per altre pellicole, quali “Winchester ‘73”, “Là dove scende il fiume”, “Lo sperone nudo” e “Terra lontana”.
L’uomo di Laramie altri non è che il capitano di Cavalleria Will Lockhart (James Stewart) che, a seguito dell’uccisione del fratello da parte degli Apaches, cerca vendetta e in incognito si mette sulle tracce di chi ha venduto illegalmente le armi agli indiani arrivando nella cittadina di Coronado.
A capo del traffico di armi c’è Dave, il figlio di Alec Waggoman, un ricco proprietario terriero. E complice di Dave nel traffico d’armi c’è Vic, il braccio destro di Alec. Entrato in contrasto con Dave, Vic lo uccide e poi cerca di fare lo stesso anche con Alec Waggoman, senza però riuscirci.
Una volta scoperta la verità sul traffico di armi, Will costringe Vic a distruggere l’ultimo carico di armi e poi lo lascia andare. L’uomo però fugge verso gli indiani, che lo uccidono. Prima di ritornare al suo reparto, Will confida a Barbara Waggoman, cugina di Dave ed ex fidanzata di Vic, la sua vera identità e la invita ad andarlo a trovare a Fort Laramie. Il film è tratto dal romanzo omonimo di Thomas T. Flynn ed è, come si può intuire dalla trama, un western in pieno stile anni ’50 che dà ampio spazio al dialogo e che si adagia sui clichés tipici del genere incasellandoli perfettamente nella narrazione. Il risultato, infatti, è una sceneggiatura che volge più verso una sensibilità umana piuttosto che sul mero scontro e sulla pura violenza fine a sé stessa. E quando si parla di sensibilità umana si parla, in questo preciso contesto, dello svelamento di quello che c’è dietro (e non solo) la famiglia Waggoman che non riesce a rimanere ferma e stabile a livello di legami. Una famiglia che, quindi, diventa il vero fulcro della storia, a differenza di quanto avviene nella quasi totalità delle pellicole di questo genere. Non c’è il “classico” accanimento contro gli indiani che, qui, sono relegati sullo sfondo. Ci sono riferimenti e vengono menzionati, ma non rappresentano mai la vera minaccia concreta nell’immediato. Il punto di partenza è non solo lo staccarsi dai clichés del genere, ma anche l’utilizzare riferimenti culturali più alti, quali la tragedia con richiami, per esempio, al “Re Lear” di William Shakespeare. In questo modo quello che viene mostrato sullo schermo diventa una sorta di West che si discosta nettamente dagli altri. È il tema della vendetta a diventare centrale ne “L’uomo di Laramie”, tema, tra l’altro, ricorrente nella filmografia del regista che decide di inserirlo anche qui per legarsi indissolubilmente al titolo. Dei cinque grandi western diretti da Anthony Mann, citati all’inizio, tutti con protagonista James Stewart “L’uomo di Laramie” è l’unico a far ricorso al Cinemascope che conferisce una potenza unica al film. Per capire meglio di che cosa si tratta basta osservare l’inquadratura iniziale, con i carri trainati da cavalli che scorrono davanti a uno scenario collinare. Uno sguardo ampio e profondo dell’intera scena che permette allo spettatore di immergersi ancora di più nella visione, sentendosi parte integrante di uno scenario incredibile. Non sembra nemmeno che ci siano dei confini. Ed è proprio questo il “dilemma” al quale ci vuole far arrivare il regista. Così come non ci sono confini fisici e geografici, allo stesso modo non ci sono confini nemmeno nella psicologia umana e nei rapporti interpersonali. Ecco che torna la vendetta e il desiderio di compierla, che alimentano l’intera vicenda. Su questo contrasto si concentra il regista che cerca di far combattere e, al tempo stesso, coesistere interiorità ed esteriorità dei personaggi. Ma è una vendetta che, seppur in contrapposizione con alcune scelte stilistiche, va in direzione opposta rispetto a titoli più classici del genere. Nonostante sia il personaggio di Stewart il protagonista indiscusso, è la figura di Alec Waggoman a far muovere il film. Ormai prossimo alla cecità, e quindi incapace di avere un orizzonte di fronte a sé, Waggoman è tormentato dagli incubi ed è da qui che si dipana la tutt’altro che semplice matassa. Il personaggio è in difficoltà anche e soprattutto perché tutti gli altri personaggi sono da considerarsi come dei figli per lui, sia in senso stretto che in senso più generale e metaforico. Se lo è Dave che, però, Waggoman non apprezza e lo è anche Vic che prova ad apprezzare di più, salvo poi scoprire che anche lui merita lo stesso trattamento del figlio, si può dire che, per certi versi, lo è anche Lockhart che, a differenza degli altri, rappresenta il figlio che lui non ha mai avuto, ma che ha sempre desiderato. Non può naturalmente eliminare tutti gli elementi tipici del genere, né trasformarli completamente, ciononostante Mann opera un grande lavoro di “ripulitura” di un genere con una pellicola che, pur appartenendo al western, se ne discosta al tempo stesso, prendendone le distanze in maniera attenta senza mai lasciare niente al caso.
In qualche modo si può dire che il lavoro di Mann consiste nell’aver modernizzato il linguaggio dell’opera, ma anche e soprattutto la psicologia e la morale dei personaggi coinvolti. E poi ci sono i temi e le situazioni che tornano costantemente a fare capolino e a pensare di potersi considerare il vero (e solo) punto di forza del genere western. A queste Mann contrappone una regia secca, netta, priva di ogni tipo di compiacimento. Un po’ come lo stesso orizzonte che non sembra trovare pace nelle immense vedute. Quello che si può affermare è che c’è una distinzione tra giustizia e vendetta, ma si tratta di una distinzione piuttosto labile considerando anche l’epoca nella quale viene inserita e utilizzata. Cos’è davvero la vendetta e cosa la giustizia? E come può l’una influenzare l’altra? Accoglienza non troppo calorosa per il film all’epoca del rilascio, adesso, a distanza di tempo, è invece uno dei più apprezzati e apprezzabili titoli dell’autore che ha, poi, dato vita a tanto altro cinema di questo genere. Un’opera che è, a tutti gli effetti, fondamentale per il passaggio verso l’estetica del western degli anni ’60 e ’70. Lo era IERI, lo è OGGI e lo sarà DOMANI. (Analisi critica a cura di Veronica Ranocchi)
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