– DILLINGER E’ MORTO di Marco Ferreri (Ieri, Oggi e Domani)


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Uno dei titoli che ha fatto sì che Marco Ferreri diventasse un grande nome del cinema (italiano e non solo) è sicuramente “Dillinger è morto”. Un perfetto mix tra le atmosfere surreali tipiche di Bunuel e l’alienazione che ha caratterizzato il

Dillinger è morto Marco Ferreri Analisi Critica

Dillinger è morto Marco Ferreri Analisi Critica

cinema di Antonioni. A cavallo degli anni Sessanta/Settanta, si utilizzava spesso il termine “alienazione”, di difficile “traduzione” oggi. O meglio si può tentare di spiegarlo, ma si trattava quasi di una sorta di stato d’animo. Si può intuire la radice (alieno) che rimanda all’idea di diverso ed estraneo, ma il significato di alienazione corrisponde più a una separazione della personalità individuale da alcuni aspetti del mondo dell’esperienza. In riferimento al film al quale abbiamo fatto cenno e alla cinematografia in generale il termine nasce in correlazione a una società in cui i ritmi del lavoro o il lavoro stesso diventano sempre più estranei, perché macchinosi e ripetitivi. Il punto massimo di questa alienazione lo si raggiunge quando si comincia ad avere a che fare con la vita quotidiana, dopo il lavoro, una vita che diventa praticamente priva di significato. Ed è proprio in questo punto che si può collocare Marco Ferreri in generale e il suo “Dillinger è morto”. Al centro della storia c’è un designer industriale, Glauco, che, dopo una giornata di lavoro è pronto a tornare verso casa, percorrendo un tragitto che è ormai sempre il medesimo. Arrivato a destinazione, per “evadere” inizia a girovagare senza meta nella sua abitazione, poi si prepara una cena con la tv in sottofondo. Mentre cerca delle spezie nella dispensa in cucina si imbatte in una vecchia pistola, impacchettata nella carta di un quotidiano che parla della morte del gangster John Dillinger. Tenta poi, in ogni modo, di scappare da questa frustrante e inappagante routine, prima proiettando i filmini delle vacanze, poi provando a sedurre la domestica Sabina, ma senza successo. Davanti alla luce del proiettore si ritrova a mimare il proprio suicidio utilizzando quella stessa pistola che ha ritrovato e che, nel frattempo, ha rimesso a nuovo, verniciandola di rosso con dei pallini bianchi. Questo suo tentativo di uccidersi rappresenta alla perfezione il discorso dell’alienazione sopra spiegato: è la diretta conseguenza della vita-non vita che Glauco e tanti altri come lui conducono costantemente. Si tratta di vite che sono già morte, quindi l’eventuale suicidio non porterebbe a niente di nuovo, anzi. Ecco perché alla fine il protagonista ha un’illuminazione e decide di uccidere la moglie Anita nel sonno, pensando, così facendo, di distruggere la piattezza di una vita e di un mondo che è costretto a vivere e rivivere. Dopo l’omicidio fugge via e sale su uno yacht, a bordo del quale è appena morto il cuoco. Ne prende il posto, ma anche questo viaggio sembra destinato a non avere una meta: lo yacht, infatti, naviga verso un sole finto senza alcuna possibilità di fuga. Un po’ come la vita-non vita alla quale è costretto il protagonista. Un cinema particolare quello mostrato e descritto da Marco Ferreri. Un cinema dove sono gli oggetti a rubare la scena. Non sono importanti i dialoghi o le azioni volte a compiere qualcosa, ma sono importanti gli elementi che completano un quadro. L’apparente incomunicabilità di un film come “Dillinger è morto” è, in realtà, il punto di forza e il focus principale della storia. In novanta minuti di film si può (erroneamente) affermare che “non succede nulla”, ma in realtà c’è un mondo dietro a tutto questo. Un mondo che Ferreri demolisce. Ma non ci si può limitare a leggere l’opera solo in chiave antiborghese, perché vorrebbe dire conferire una visione riduttiva alla stessa. E poi c’è da domandarsi se anche l’analisi dello spettatore non possa essere considerata allo stesso modo. Soprattutto per il pubblico dell’epoca che poteva essere rappresentato proprio dal Michel Piccoli, interprete di Glauco. La vita mostrata sullo schermo doveva essere la medesima del pubblico e quindi che garanzie ci sono che la sua (auto)analisi non sia, in qualche modo, vincolata come la sua personalità? In generale, però, “Dillinger è morto” è un’opera sulla mente e sul potere e l’influenza che il pensiero ha sulle persone. A fare da sottofondo alla vicenda-non vicenda la musica degli anni ’60 con “Sole rosso” di Jimmy Fontana e “La luce accesa” di Lucio Dalla che riescono quasi a creare un effetto straniante. Per certi versi le decisioni e le scelte dei personaggi sembrano essere in sintonia con la musica e le parole, per certi altri le stesse canzoni hanno come il potere di distaccare da ciò che si sta vedendo. Una storia che, appunto, non è una storia nel senso completo del termine dà vita a un finale che è tutt’altro che positivo o consolatorio. Dopo la “disperazione” intrinseca del protagonista lo spettatore, con lui, spera in una vera evasione al termine per riprendere possesso della propria vita e delle proprie scelte. E invece questo non accade. Il finale continua a seguire la scia di quello che viene raccontato prima. Si tratta di un’illusione. Glauco si illude di aver rotto gli schemi e di poter scappare; crede di essere vivo e, invece, è più morto di prima.

Una scena del film “Dillinger è morto” di Marco Ferreri – Analisi Critica, Recensione

Tra citazioni (la scena dello smontaggio e del rimontaggio della pistola strizza l’occhio al “Taxi Driver” di Martin Scorsese) e riferimenti, la noia esistenziale del Glauco di “Dillinger è morto” ha permesso a Marco Ferreri di ottenere fama internazionale. In seguito, nonostante titoli diventati famosi come “La grande abbuffata”, “Non toccate la donna bianca” o “L’ultima donna”, non ha mai riscosso lo stesso successo.
Si potrebbe riassumere il film con “una delle espressioni forse più significative di cinema d’autore italiano”. Quello di Ferreri è, come già ripetuto, un film in cui succede molto meno di quanto la durata effettiva suggerisca e nel quale ci si concentra di più sui messaggi che sull’azione e sulla narrazione.
All’epoca in cui il film uscì nelle sale si parlò di vera e propria political art, visto che l’intero film sembra essere una metafora della società moderna e, in special modo, del senso di oppressione che induce sugli individui. Un elemento che merita una menzione particolare è l’insistenza sul colore rosso: il camice da cucina del protagonista, la corrida a cui assiste nel filmino nota per il telo rosso, i fotogrammi nel finale e ovviamente l’onnipresente pistola che viene colorata con vernice rossa a pois bianchi.
Parlando di menzioni non si può non fare riferimento agli interpreti, in special modo al protagonista, un Michel Piccoli in splendida forma che, pur con pochi dialoghi, riesce a trasmettere quella malinconia e quel senso di noia e monotonia alla base del film e della visione dello stesso Ferreri. A tal proposito si può citare una dichiarazione dello stesso regista che nel 1969 dichiarava la morte del cinema come “messa in scena della messa in forma delle cose”, sottolineando l’impossibilità a decifrare la realtà e, di conseguenza, a evaderne. “Dillinger è morto” è un film che, pur non parlando, racconta più dei film “densi”. Racconta uno spaccato della società dell’epoca in grado di influenzare tutto e tutti. Ed è davvero così distante dalla società di oggi? Forse Marco Ferreri ci aveva visto lungo… Un film che non può mancare all’appello di un vero cinefilo, anche perché si tratta di una piccola perla. Lo era IERI, lo è OGGI e lo sarà DOMANI. (Analisi critica a cura di Veronica Ranocchi)

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