Considerato da tutti il film manifesto della Nouvelle Vague, “Fino all’ultimo respiro” è forse il capolavoro di Jean-Luc Godard con due eccellenti interpreti, Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo.
Un film che racconta l’essenza stessa della Nouvelle Vague e di quello che ha portato il grande autore francese alla settima arte. Nella Parigi del 1959 Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo) è un ladro e truffatore che mette a segno un colpo a Marsiglia, rubando un’automobile e fuggendo col proposito di recarsi in Italia. Dopo aver lasciato la città, viene inseguito da due poliziotti per eccesso di velocità. Cerca inutilmente di nascondersi, ma il ritrovamento accidentale di una pistola nell’auto da lui rubata lo porta a uccidere uno dei due agenti per non essere arrestato. Commesso il crimine, continua la sua fuga arrivando a Parigi dove, dopo essersi rivolto ad alcuni amici per ottenere del denaro, va in cerca di Patricia, una giovane studentessa americana di cui si era invaghito, ma che non ricambia il suo sentimento, e che vorrebbe portare con sé in Italia. La polizia intanto inizia a fare delle indagini per scoprire l’assassino dell’agente e sembra riuscire a risalire a Michel Poiccard. Mentre la polizia, quindi, tenta di trovarlo e arrestarlo, il protagonista continua la sua vita all’ultimo respiro, portando avanti il ruolo di “delinquente”. Tra furti di soldi e auto, Michel vive una vita diversa da quella che probabilmente si era prefisso. Questo finché non apprende, leggendo France Soir, di essere, appunto, braccato dalla polizia, ormai sulle sue tracce. A quel punto il giovane cerca in tutti i modi possibili di fuggire chiedendo anche alla ragazza di accompagnarlo in questa fuga. Lei, sempre restia, viene interrogata dalla polizia che le chiede informazioni sul conto di Michel. Patricia, però, afferma di non sapere nulla per non mettere nei guai il ragazzo, ma il giorno successivo, consapevole di non provare per lui gli stessi sentimenti che lui, invece, prova per lei, decide di denunciarlo alla polizia che lo trova e che, di fronte al suo tentativo di fuga, lo colpisce con un proiettile sotto gli occhi della ragazza. Un film provocatore e, al tempo stesso, innovativo dove tutto sembra poter essere concesso. A partire dalla tecnica utilizzata. Godard realizza un film completamente nuovo che, oltre che essere il manifesto di un nuovo modo di fare cinema, è proprio una rottura tra il vecchio e il nuovo, tra la staticità e la dinamicità, tra la classicità e l’osare e il tentare strade nuove e innovative. Un esempio su tutti è quello delle riprese effettuate con la macchina a mano e i tagli del montaggio (i famigerati jump cut) che non portano alla realizzazione di una sequenza lineare, ma anzi creano ancora più confusione nei momenti già di per sé concitati. Emblematico, a tal proposito, è proprio il momento della sparatoria all’agente che, con un taglio di montaggio, apparentemente errato, ma volutamente “mescolato” spiazza lo spettatore che si ritrova a non capire completamente le dinamiche del fatto. E questo inevitabilmente porta a un cambiamento anche nella struttura della storia stessa che va a ripercuotersi in quella che sarà poi la Nouvelle Vague e anche la filmografia del grande regista francese. Una macchina da presa che sembra seguire pedissequamente i personaggi, non lasciandoli soli neanche un istante e non lasciando loro nemmeno il tempo di respirare. Al contempo, però, questo seguirli costantemente trasmette spontaneità e immediatezza tanto che il pubblico sembra essere di fronte a una sorta di reportage, come se quello che vede sullo schermo fosse una ripresa dal vivo, autentica, senza filtri e senza una sceneggiatura o un canovaccio di base. Ma sono tante le scene che si possono e si potrebbero citare come esempio di cinema per eccellenza. Dai famosi jump cut, di cui sopra, alle sequenze che hanno consacrato, così come tutto il film, Jean-Paul Belmondo, che imita Humphrey Bogart, passando per i lunghi piani sequenza. Sono scene entrate nell’immaginario comune e spesso presi a esempio sotto tutti i punti di vista per analisi che vanno oltre la semplice spiegazione del film. Nel dettaglio, a proposito di queste scene citate, si può notare come durante “Fino all’ultimo respiro”, più volte, Belmondo compia lo stesso identico gesto, quello di passarsi il pollice sopra le labbra. La sua idea (e quella di Godard alla regia) è proprio di rimandare all’immagine ideale di Bogart, grande mito del cinema hollywoodiano dagli anni ’30 agli anni ’50, quasi a voler dire “sarà io il prossimo mito”. E, in effetti, le sue espressioni, il suo atteggiamento e la sua gestualità risultano singolari a tal punto da renderlo uno dei personaggi (e uno degli attori) più “acclamati”, seppur non ai livelli del grande mito al quale sembrava ambire. Così facendo, però, diventa un vero e proprio simbolo. Insieme alla protagonista femminile, Michel diventa il prototipo dei nuovi soggetti esistenziali cinematografici degli anni ’60. Quello che entrambi portano avanti è l’affermazione della libertà che risulta essere fondamentale. Se da una parte Michel trova la propria identità e la propria libertà nell’illegalità e nella trasgressione, dall’altra Patricia si interroga sull’esistenza, sulla libertà, sulla vita. Ma, come detto, un’altra sequenza nota, forse addirittura la più celebre dell’intero film, è quella interamente girata nella camera d’albergo dell’Hôtel de Suède e, per la gran parte, costituita da piani sequenza più o meno lunghi che vanno a costituire quasi 23 minuti di riprese, in cui fondamentalmente non accade nulla di rilevante, ma assistiamo a un dialogo tra i due protagonisti. Un ulteriore aspetto da segnalare di “Fino all’ultimo respiro” è il ruolo che ha Parigi all’interno della narrazione. Una città che non è relegata a “semplice” background rispetto alla storia, ma anzi una città che diventa elemento quasi essenziale dell’intero film. Andandosi a fondere con le azioni e i comportamenti dei protagonisti, diventa essa stessa un personaggio con più sfaccettature. Parigi è una città che prende vita nel film di Godard, tra le luci e la folla che passeggia nei lunghi boulevard. Ma è anche una città in contrapposizione con il protagonista. Se Michel sta cercando il proprio scopo e sembra trovarlo apparentemente nei furti e nella delinquenza, Parigi si oppone a questo suo modo d’essere. La sua classicità di capitale quasi eterna contrasta con il suo essere anche ambiente moderno e dinamico. Un ambiente in grado di cambiare, ma non di adattarsi al personaggio di Michel che, invece, non trova pace e serenità, ma è in continuo movimento e non riesce a trovare un posto nemmeno in una città disposta, per certi versi, a cambiare come Parigi. Un film che ha dato, e continua a dare, vita a tante riflessioni e analisi. Dal punto di vista tecnico, strutturale, ma anche narrativo “Fino all’ultimo respiro” è cinema allo stato puro. Sperimenta e osa come mai nessuno, fino a quel momento, aveva osato. E ancora oggi appare attuale, moderno e innovativo, nonostante i grandi passi avanti fatti. Godard, come detto, ha realizzato un vero e proprio spaccato a cui, ancora oggi, in tantissimi attingono. Talvolta anche inconsapevolmente. Un film che non stanca e non stancherà mai per la sua classicità e, al tempo stesso, la sua modernità. Lo era IERI, lo è OGGI e lo sarà DOMANI. (Recensione a cura di Veronica Ranocchi)
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