“Il club dei 39”, una delle più riuscite storie del periodo inglese di Alfred Hitchcock. Fatta eccezione per i titoli più celebri che permettono al regista di essere ancora oggi, a ragione, uno dei maestri più grandi del cinema sono tantissime le opere alle quali ha dato vita, tra cui anche “Il club dei 39”, appassionante storia di spie e fughe rocambolesche che nasce in realtà dal romanzo di John Buchan “I 39 scalini”. Hitchcock, insieme allo sceneggiatore Bennet, cercò di adattare il romanzo allo schermo tenendo comunque presenti alcuni elementi, quali terrorismo politico e
spionaggio internazionale, ai quali, però, unirono anche aspetti più sentimentali, romantici, drammatici, insomma fondamentali in un adattamento cinematografico affinché esso possa essere apprezzato da un pubblico più vasto possibile.
Una storia che si sposta in più spazi e ambienti, da quelli più confortevoli a quelli più soffocanti, con al centro una cifra narrativa inconfondibile del grande maestro del cinema: un innocente continuamente perseguitato da tutto e tutti. Un romanzo talmente efficace da suscitare l’interesse non solo di Hitchcock, che dà vita alla prima trasposizione, ma anche di altri autori dopo di lui, precisamente nel 1959 e nel 1978 con Ralph Thomas e Don Sharp.
Alfred Hitchcock era già famoso in Gran Bretagna quando questo film lo rese di colpo popolarissimo anche fra il pubblico italiano. Anche in questo caso, come sempre nei suoi film, la storia è solo un pretesto che lui utilizza per raccontare episodi inquietanti, paure, pericoli attraverso le atmosfere e i metodi della suspense di cui Hitchcock è maestro.
Richard Hanney è un simpatico giovane canadese che si trova a Londra per affari. Assistendo a uno spettacolo che termina in una rissa a seguito di uno sparo, l’uomo si imbatte in una donna misteriosa che gli chiede di essere ospitata per la notte. La donna, tale Annabella Smith, gli rivela di essere un’agente segreto al servizio dell’Inghilterra che sta cercando di rintracciare le spie di una potente organizzazione chiamata “I trentanove scalini”. Purtroppo, essendo stata riconosciuta a teatro, per depistare gli inseguitori si è trovato costretta a sparare a salve e creare trambusto. Inoltre rivela all’uomo che il capo dell’organizzazione cambia costantemente nome e travestimenti, ma è riconoscibile per un particolare: gli manca una falange del dito mignolo della mano destra. Purtroppo, però, durante la notte viene assassinata e Hanney diventa il primo sospettato dell’omicidio. Decide, quindi, di darsi alla fuga, ma è braccato dalla polizia e dalla stessa organizzazione spionistica.
Nonostante si possano riscontrare forti analogie con altre opere hitchcockiane, quali “Il prigioniero di Amsterdam”, “Sabotatori”, “L’uomo che sapeva troppo”, la bravura del regista riesce ad andare oltre rinnovando l’interesse al di fuori degli schemi riproposti. Qui, in particolare, si può notare l’inclinazione del maestro del cinema per le eroine bionde e delicate, come quella interpretata da Madeleine Carroll.
Quello confezionato da Hitchcock è un ottimo film di spionaggio, attento e preciso in ogni minimo particolare, con colpi di scena tipici del maestro del cinema e una storia emozionante che vede ben amalgamate vicende drammatiche e trovate umoristiche. Non a caso si potrebbe definire un giallo travestito da commedia o una commedia all’interno di un film giallo.
Lo scopo e l’obiettivo di questo (ma anche degli altri film di Hitchcock) è quello di creare un rapporto diretto con lo spettatore che deve uscire dalla sala soddisfatto ed emozionato, ma anche impaurito, al punto giusto perché cominci a interrogarsi su ciò che ha visto. Per farlo il regista deve sì, stare attento a ogni minimo particolare, ma particolari che riguardano il modo in cui il film deve
arrivare al pubblico. A interessargli non è la storia, non è la verosimiglianza, ma come vengono mostrate le azioni che si susseguono sullo schermo.
A completare e aiutare tutto questo, nel caso de “I 39 scalini” c’è sicuramente l’attore protagonista, Robert Donat, bravo e ironico al punto giusto, di pari passo con il ritmo dell’intera vicenda, frenetica e piena di tensione, ma smorzata anche da toni umoristici che equilibrano il film e lo rendono completo.
Inoltre, e come già accennato, il protagonista incarna uno dei temi cari a Hitchcock, quello di un uomo normale che si ritrova suo malgrado in situazioni molto più grandi di lui e alle quali deve cercare di sopravvivere per quanto possibile. Ma non solo. C’è anche un altro aspetto, spesso ricorrente nella sua filmografia: la presenza di un gruppo di cospiratori che trama contro il sistema, ma che sono camuffati dall’apparenza. Un elemento, questo, che permette di giocare sulla suspense perché non sempre il buono è davvero buono e viceversa.
Analizzare ogni momento di questo film sarebbe impossibile, anche se probabilmente necessario per comprendere davvero fino in fondo quanto Hitchcock sia stato attento a tutto e non abbia lasciato niente al caso. Si può però citare la famosa sequenza della preghiera con il protagonista che, durante la sua fuga, ha trovato ospitalità presso un contadino con la moglie e i tre si ritrovano seduti a tavola con il padrone di casa che inizia a recitare la sua preghiera di ringraziamento mentre Hanney scopre che sul giornale che si vede sulla tavola è presenta la notizia di lui stesso ricercato per omicidio. Lo scambio di sguardi tra i tre, senza bisogno di proferire parola è un susseguirsi di intensità e forza drammatica che rende il film come un vero e proprio gioiello.
Accanto a questa adrenalina, però, si fa spazio anche un romanticismo che rappresenta il perfetto contraltare della vicenda, anch’esso a metà strada tra dramma e commedia.
Il mix che avvolge l’intera pellicola, tra mistero, azione, romanticismo e anche umorismo è ciò che lo ha reso e lo rende tutt’oggi una delle opere migliori del periodo britannico di Hitchcock. Da vedere e rivedere. Lo era IERI, lo è OGGI e lo sarà DOMANI. (Analisi critica del film “Il Club dei 39” di Alfred Hitchcock a cura di Veronica Ranocchi)
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