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Utama Recensione Poster

stagioni e dalle poche, quanto necessarie, azioni quotidiane, come portare i lama al pascolo o rifornirsi d’acqua. Quando tuttavia una forte siccità minaccia lo stile di vita della coppia e iniziano a emergere i primi sintomi di una malattia che affligge Virginio, il nipote dei due, Clever, si presenta alla porta dei nonni con la ferma intenzione di portarli a vivere in città con lui. La sua determinazione, unita all’amore per l’anziana coppia, dovrà scontrarsi con la caparbietà del nonno e i presagi che annunciano un disegno già prestabilito. Alejandro Loayza Grisi, al suo esordio cinematografico, gira un film che incanta occhi e cuore per la sua semplicità e limpidezza; un canto dell’arcaico aldilà di ogni tempo che insegna il valore della tradizione e della vita spesa al servizio della madre terra. Non serve la civiltà per essere felici, non servono i rumori e le ansie della grande città, ma un percorso quotidiano che guidi l’anima attraverso la natura e la osanni per ciò che può offrire, ma anche per ciò che può privare. Utama, la nostra casa in lingua quechua, utama è ciò che occorre alla vita, una casa dove c’è amore e c’è uno scopo, perché senza uno scopo la vita del contadino e del pastore non sarebbe nulla e senza di loro le terre, per citare una frase del film, sarebbero abbandonate al silenzio. Ed è proprio il silenzio a farla da padrone in questo film, insieme agli sterminati spazi e i respiri affannosi di una vita che si spegne, ma che ha ancora qualcosa da insegnare. Quello che resta di questo film infatti è un insegnamento prezioso per ogni generazione a venire, un ultimo canto prima che il condor spicchi il volo e scompaia per sempre. (La recensione del film “Utama” è di Tommaso Di Pierro)